• E’ stato stimato che di circa 5.000 – 10.000 nuove entità chimiche (NCEs), note anche come nuove entità molecolari (NMEs), scoperte in laboratorio, solo 1 riesce ad ottenere l’approvazione per il mercato [1-2-3-4-5].

(il grafico sopra è estrapolato da un doc. pubblicato da F. Hoffmann-La Roche Ltd, 2013) [2]

  • Nel 2004, la US FDA (Food and Drug Administration, organismo di farmacovigilanza degli U.S.A) stabiliva al 92% la percentuale di farmaci sperimentali che, nonostante fossero stati testati con successo nelle fasi precliniche ‘’in vivo’’ (cioè su ‘’modelli animali’’), falliva la traduzione nelle fasi cliniche (cioè su esseri umani) [6-7].
  • Dati più recenti hanno rivisto questo tasso di fallimento farmacologico ad una percentuale compresa tra il 95% ed il 97% [8-9-10-11], confermato anche dagli US NIH (National Institutes of Health, l’istituzione statunitense più importante per quanto concerne la ricerca biomedica, responsabile per l’erogazione di fondi) [12]:

‘’Un nuovo farmaco, dispositivo od altro intervento, può richiedere circa 14 anni ed 1 miliardo di dollari o anche più per il suo sviluppo, con un tasso di fallimento superiore al 95%.’’ [12]

  • Le ragioni principali alla base del suddetto tasso di ‘’logoramento’’ rilevato nel processo di sviluppo farmacologico (Drug Development) sono mancanza di efficacia e significativa tossicità riscontrate nei trials clinici su esseri umani [6-8-11-13-14-15], ovvero esiti del tutto divergenti con quelli rilevati nelle precedenti fasi precliniche su ‘’modelli animali’’ [6-8-11-16-17].
  • Il costo connesso allo sviluppo di un nuovo agente farmacologico oscilla tra 1 e 5 miliardi di dollari statunitensi [12-18-19], altri segnalano investimenti che possono arrivare anche fino a circa 10 miliardi di dollari [20].
  • Secondo uno studio eseguito dal G.A.O. (General Accounting Office degli U.S.A.), che esaminò 198 farmaci approvati tra il 1976 ed il 1985 negli Stati Uniti d’America, il 51,5% dei farmaci commercializzati manifestano ‘’Serious Adverse Effects’’ (Gravi Reazioni Avverse) nella popolazione non rilevate prima della commercializzazione [21-22-23-24].
  • Uno studio più recente ha rilevato che di 222 nuovi agenti terapeutici, approvati dalla US FDA tra il 2001 ed il 2010, il 32% è stato associato ad eventi avversi [25].
  • Sempre negli Stati Uniti d’America, il 2.9% dei farmaci commercializzati tra il 1975 ed il 2000 è stato ritirato e l’8.2% ha ricevuto una o più ‘’black-box warning’’ [26]. Riferiscono gli autori che hanno analizzato questi dati:

‘’Sulla base dei nostri risultati, e di quelli di altri, i medici dovrebbero evitare di utilizzare nuovi farmaci quando agenti più vecchi e di efficacia simile sono già disponibili.’’ [26]

  • L’AIFA invece, ente di farmacovigilanza italiano, nel 2011 riferiva sulla situazione interna italiana quanto segue:

‘’negli ultimi 10 anni sono stati ritirati 39 farmaci’’ [27], in media 1 farmaco ritirato quasi ogni 3 mesi.

  • Il Dr Allen Roses, l’allora vice-presidente di genetica presso la GlaxoSmithKline (GSK, importantissima azienda farmaceutica, tra le maggiori al mondo), ha dichiarato che almeno la metà dei pazienti a cui furono prescritti alcuni dei farmaci più costosi non godettero di alcun beneficio:

‘’la stragrande maggioranza dei farmaci, più del 90%, funziona solo nel 30 o  50% dei casi’’   [28-29-30].

  • Una meta-analisi pubblicata sul JAMA nel 1998 calcolò che i morti annuali negli U.S.A. per Gravi Reazioni Avverse ai Farmaci erano 106 mila [31]. Studi più recenti hanno stimato che sono circa 128 mila l’anno le persone che muoiono sempre negli U.S.A. a causa delle Gravi Reazioni Avverse ai Farmaci (Adverse Drugs Reactions) [32], questo dato sarebbe coerente con quel trend emerso da uno studio che ha rilevato un aumento del numero delle ADRs nel corso degli anni [33-34].
  • Nell’UE i morti per ADRs sono circa 197 mila all’anno [35-36-37].
  • Per meglio rappresentare la magnitudo del problema ADRs, pur ammettendo che queste siano riconducibili ad errori di sorta e quindi prevenibili diciamo nel 50% od anche il 60-70% dei casi, considerando le più recenti stime [32] significherebbe che nei soli Stati Uniti d’America (cioè prendendo in esame i dati relativi ad un solo paese al mondo) si verificherebbero ogni anno oltre 600 mila casi di persone seriamente danneggiate dalle ADRs (con conseguenti ricoveri e sensibili aumenti della spesa pubblica inerenti ai costi sanitari associati), di cui oltre 38 mila sarebbero i decessi. A questo punto, si consideri altresì che nel 2013 uno studio eseguito dall’Uppsala Conflict Data Program (UCDP, Uppsala University) ha calcolato a 37.941 le vittime di guerra registrate in TUTTI i conflitti bellici in corso nel mondo nell’anno precedente [38]. In altre parole, il numero di morti da reazioni avverse ai farmaci rilevate nei soli U.S.A. ogni anno (calcolate con stime alquanto conservative) sarebbe superiore a quello delle persone decedute in TUTTE le guerre in atto nel mondo nel 2012.

  • Risulta difficile calcolare una stima accurata delle Gravi Reazioni Avverse ai Farmaci, in quanto è risaputo che le stesse sono seriamente sotto-segnalate e di conseguenza sotto-riportate [26-39-40].
  • Il processo di sviluppo farmacologico viene generalmente indicato come costoso ed inefficiente [19-41-42-43]:

‘’Forgiato nei primi anni del 1960, il paradigma per l’innovazione farmaceutica è rimasto praticamente invariato per quasi 50 anni. Durante un periodo in cui la maggior parte delle altre industrie basate sulla ricerca hanno adottato frequenti, e spesso radicali, modifiche ai loro processi di Ricerca e Sviluppo (R&D), il settore farmaceutico continua ad utilizzare un processo di sviluppo che è lento, inefficiente, rischioso e costoso.’’ [41]

  • Una delle cause principali, se non la più rilevante, alla base di questo modello di produzione alquanto improduttivo in termini di risultati utili è da addebitare alle significative differenze inter-specie tra ‘’modelli animali’’ ed esseri umani [8-11-13-15-19-44-45-46-47-48-49-50-51-52-53].
  • Gli studi preclinici condotti su animali risultano essere inadeguati, piuttosto scarsi, come ‘’sistemi di modalità predittiva’’ dell’esperienza umana (ANCHE) tossicologica di riferimento [8-11-13-15-19-44-54-55-56-57-58-59-60-61-62-63-64]:

‘’Il fatto che i candidati farmaci falliscono nei trials clinici a causa di una significativa tossicità illustra che il vecchio paradigma tossicologico sperimentale, nella fattispecie incentrato prevalentemente sull’utilizzo di animali da laboratorio per prevedere la sicurezza del farmaco per gli esseri umani, non è adeguato.’’  [59]

Questo acclarato riscontro viene confermato anche dall’O.M.S. (Organizzazione Mondiale della Sanità, WHO) che considera ‘’insufficienti’’ i test animali nel prevedere la tossicità farmacologica umana [65].

  • L’attuale paradigma di ricerca biomedica e tossicologica è fortemente incentrato sul ‘’riduzionismo’’, cioè un metodo di studio che cerca di sezionare un sistema nelle sue componenti analizzandone ciascuna parte singolarmente per giungere ad una conclusione circa il sistema nel suo complesso o almeno il ruolo della singola parte [66]. Benchè il metodo riduzionista sia stato efficace nello spiegare la base chimica di numerosi processi inerenti agli organismi viventi, molti biologi ora si rendono sempre più conto che questo approccio ha raggiunto il suo limite [3-66-67-68]. Il Biologo Molecolare Marc Van Regenmortel riferisce che:

‘’I sistemi biologici sono estremamente complessi e presentano proprietà emergenti che non possono essere spiegate, o addirittura previste, studiando le loro singole parti. L’approccio riduzionista, anche se efficace nei primi giorni della biologia molecolare, sottovaluta questa complessità e pertanto ha un’influenza sempre più dannosa su molte aree della ricerca biomedica, tra cui la scoperta farmacologica e lo sviluppo di vaccini.’’  [67]

  • Un approccio di ricerca sperimentale di tipo riduzionistico sarebbe l’unico possibile con il ‘’modello animale’’, in quanto attraverso la presenza di ‘’caratteri conservati tra specie’’ si potrebbe ipotizzare un’eventuale estrapolazione di dati ad un livello inter-specie. Tuttavia, animali non-umani ed esseri umani sono esempi di ‘’sistemi viventi adattativi complessi ed evoluti’’ [66] e, come tali, potrebbero reagire in maniera divergente quando ad esempio sottoposti all’azione del medesimo farmaco (come del resto dimostrato dall’elevato tasso di fallimento farmacologico rilevato nel processo di sviluppo ed imputabile, come visto, anche alle differenze tra specie). Il fatto che l’animale sia un sistema complesso, e complesso in modo diverso rispetto all’essere umano, pone seri limiti alla prospettiva riduzionista [69].
  • Animali non-umani ed esseri umani possono manifestare differenti risposte agli stessi stimoli, dovute a:
  1. differenze genetiche;
  2. differenze rispetto alle mutazioni dello stesso gene (laddove una specie abbia un ortologo presente in un’altra);
  3. differenze rispetto alle proteine ed alla loro attività;
  4. differenze rispetto alla regolazione genica;
  5. differenze nell’espressione genica;
  6. differenti interazioni proteina-proteina
  7. differenze nelle reti genetiche;
  8. differenze rispetto all’organizzazione dell’organismo (esseri umani e ratti possono essere sistemi intatti, ma possono essere differentemente intatti);
  9. differenze nell’esposizione ambientale;
  10. differenze fra le storie evolutive. [66]
  • Piccole differenze tra specie possono implicare enormi differenze nelle risposte davanti alla medesima perturbazione (sia essa un farmaco od una malattia) [69-70-71-72].
  • Anche un singolo cambiamento amminoacidico nelle proteine tra topo ed essere umano può modificare la risposta farmacologica [72].

‘’Farmaci promettenti identificati nei modelli animali sono notoriamente difficili da tradurre per gli esseri umani a causa di piccole ma significative differenze nella fisiologia cellulare, nelle risposte genomiche ed altri fattori, come i profili lipidici.’’ [73]

‘’Piccole differenze nei modelli potrebbero portare a vaste differenze nei risultati.’’

(comportamento caotico dei sistemi viventi complessi adattativi evoluti, il cosiddetto ‘’butterfly effect’’) [74]

(nelle immagini sopra, tratte da: Henney, A. Opportunities and Challenges in
The Emerging Field of Synthetic Biology: Health & Medicine. A view from the pharmaceutical sector. US National Academies, OECD, Royal Society
July 9-10, 2009)

  • Topi ed esseri umani hanno intrapreso percorsi evolutivi differenti separandosi da una comune specie ancestrale circa 65-85 milioni di anni fa [75-76-77].
  • Gli studi genomici hanno rilevato evidenti omologie genetiche tra topi ed umani [76]. Questi studi, insieme allo sviluppo di metodi per la creazione di topi transgenici, knockout e knockin, hanno fornito impulsi considerevoli e strumenti efficaci per la ricerca con il modello murino portando ad un drastico aumento dell’uso di topi come ‘’organismi modello’’ [76]. Tuttavia, nonostante le varie analogie genetiche tra topi ed esseri umani, sono ravvisabili anche differenze significative e fondamentali. Ad esempio, le due specie variano in diversi aspetti dello sviluppo embrionale, in particolare durante la gastrulazione e l’organogenesi. Sul piano genomico, anche se la maggioranza dei geni umani e quelli del topo è ortologa, il 20% circa non ha un ortologo singolare identificabile e l’1% manca di un omologo [78].

  • Topi e Ratti vengono utilizzati nella ricerca biomedica e tossicologica non tanto perché risulterebbero ‘’modelli ideali’’ per l’essere umano, ma per ragioni ‘’pratiche e di convenienza’’ [68-79-80-81].
  • Anche i primati non-umani differiscono significativamente negli aspetti genetici e fisiologici dagli esseri umani [15-57-82-83-84-85-86].
  • Gli scimpanzè sono ‘’i nostri parenti più stretti’’ (geneticamente parlando) e di conseguenza ci si potrebbe aspettare da loro, piuttosto che da altre specie animali di laboratorio, di avere maggiori probabilità di prevedere con una certa precisione gli esiti umani durante la ricerca preclinica. Tuttavia, nonostante la grande somiglianza tra le regioni strutturali del DNA degli scimpanzé con quello umano, differenze importanti tra le regioni regolatorie esercitano un ‘’effetto valanga’’ sul gran numero di geni strutturali [87]. Nonostante la differenza nucleotide tra scimpanzé ed esseri umani risulta essere solo dell’ 1-2%, i risultati per quanto riguarda l’espressione proteica si traducono in differenze di circa l’80% [88] con conseguenti differenze fenotipiche marcate tra le specie.

‘’Questo confronto è biologicamente significativo, perché anche una sostituzione amminoacidica potrebbe avere effetti significativi sulle differenze fenotipiche.’’ [88]

(Glazko et al. 2005)

Tali differenze si manifestano in una suscettibilità alterata ad eziologia e progressione delle malattie, differente assorbimento, distribuzione tissutale, metabolismo, escrezione degli agenti chemioterapici e differenze nella tossicità e nell’efficacia dei farmaci. Questi effetti sembrano essere responsabili dell’incapacità dimostrata nella maggior parte delle ricerche su scimpanzé di contribuire in modo sostanziale allo sviluppo di metodi efficaci nella lotta alle malattie umane [85].

  • Altre specie animali di laboratorio sono ancora meno simili agli esseri umani, sia geneticamente che fenotipicamente, e quindi hanno meno probabilità di modellare accuratamente la progressione delle malattie umane o le risposte umane ad agenti farmacologici (ad esempio) [15-72-89-90-91-92].

‘’I topi sono topi e le persone sono persone. Se guardiamo al topo come modello di tutti gli aspetti della malattia per l’uomo e per le sue cure stiamo solo perdendo tempo […] Il topo ci è costato una nuova generazione di farmaci […] La maggior parte dei soldi che spendiamo negli studi clinici sulla base dei dati ottenuti sui topi è completamente sprecata […] Abbiamo avuto migliaia di studi sui topi per quanto riguarda la tubercolosi, ma nessuno di loro è mai stato utilizzato per scegliere un nuovo regime di farmaco-terapia che è riuscito nel corso degli studi clinici sull’uomo. Questo non è vero solo per la tubercolosi, ma è vero per quasi tutte le malattie. Stiamo spendendo sempre più soldi, senza ottenere potenziali farmaci utili.’’  [93]

(Dr. Clif Barry, Responsabile della Sezione Ricerca Tubercolosi, Istituto Nazionale di allergie e malattie infettive, Bethesda, Maryland, U.S.A.)

  • Ad oggi, anche l’utilizzo di animali GM (geneticamente modificati) non si è rivelato risolutivo per la traduzione di validi composti farmacologici destinati al trattamento delle patologie umane. Al pari degli altri modelli animali utilizzati nelle diverse aree di ricerca, anche quelli GM vengono infatti riconosciuti come severamente limitati [72-77-94-95-96-97-98-99-100-101-102-103-104].
  • In generale, i modelli animali risultano fortemente limitati e scarsamente predittivi (ANCHE) per gli studi su: diabete [90-102-105-106], cancro [15-68-77-104-107-108-109-110-111], dolore [68], immunologia [68-112-113-114-115], malattie del sistema nervoso centrale [13-68-72-77-92-116-117-118-119-120], malattie infettive come l‘HIV [68-77-82-112-121-122], studi di cancerogenesi [123-124-125-126-127-128] e teratogenesi [129-130-131-132-133].
  • Tgn1412, anticorpo monoclonale anti-CD28 sviluppato per il trattamento della leucemia linfatica cronica a cellule B e dell’artrite reumatoide. Causò insufficienza multiorgano nei volontari umani a cui venne somministrato durante il trial sperimentale di fase I [134-135], ad uno dei volontari dovettero amputare le dita delle mani e dei piedi [134]. Nei test preclinici condotti su diverse specie animali, tra cui roditori e primati non-umani della specie macachi rhesus e cynomolgus [58], il Tgn1412 non manifestò segni di severa tossicità. In particolare, le scimmie utilizzate non manifestarono tossicità nella risposta al farmaco nemmeno ad un livello di dose 500 volte superiore a quella utilizzata nel trial di fase I su esseri umani [15-58]. Il macaco cynomolgus fù scelto come modello animale per la valutazione della tossicità in quanto il Tgn1412 si lega con elevata affinità ad un epitopo di sei amminoacidi su un loop extracellulare della molecola CD28 che si ritiene sia 100% omologo tra le scimmie cynomolgus e gli esseri umani [134-136]. Differenze fino al 4% circa nella sequenza amminoacidica del loop C9D del recettore CD28 sono state rilevate tra macachi rhesus ed umani [137].

 ‘’Come Biologo, la lezione più importante che ho imparato è che l’utilizzo dei primati non-umani per determinare la potenziale tossicità dei farmaci biologici non può essere affidabile, anche se il target molecolare è identico a quello della specie umana.’’ [138]

(Prof. Thomas Hünig, dell’Institute for Virology and Immunobiology, University of Würzburg, Germania, uno dei ricercatori che hanno preso parte allo sviluppo del Tgn1412)


‘’I modelli animali sono raramente veri modelli di malattia e possono rappresentare, nel migliore dei casi, solo alcune caratteristiche o meccanismi di malattia umana […] In alcune aree di ricerca, come per quella relativa agli agenti neuroprotettivi, il tasso di fallimento per la traduzione di farmaci efficaci dai modelli animali alla pratica clinica è stato del 100%. Per i modelli animali di dolore la situazione è analoga. Mentre sono stati proposti argomenti che suggeriscono che quanto detto sia il risultato di una scarsa metodologia e di un discutibile design del modello animale, altri concordano sul fatto che ogni specie animale rappresenta un sistema complesso evoluto e divergente che non può ritenersi predittivo per un altro
(sistema complesso evoluto e divergente, ndr).’’ [139]

 Jackson, C, G. (Bioscience Department, AstraZeneca R&D Charnwood, UK)

 ‘’Per quanto concerne l’area di studio sull’ictus, di più di 900 trattamenti neuroprotettivi che si sono dimostrati efficaci sui modelli animali utilizzati 114 sono stati testati sugli esseri umani nelle prove cliniche. Eppure, a parte due sole eccezioni, neanche uno si è dimostrato efficace per l’uso umano […] Il fatto che i modelli animali siano ancora utilizzati nella ricerca preclinica più di un decennio dopo che la loro totale mancanza di valore traslazionale è stata riportata mette in dubbio la logica del loro uso, al di là di un modo per pubblicare (i propri studi, ndr).’’ [140]

 (Mullane et al. 2014)

  • Il citocromo P450, responsabile del metabolismo di molti farmaci [141], sembra essersi evoluto da un unico gene ancestrale per un periodo di 1,36 miliardi di anni [142]. Ad oggi, almeno 14 famiglie di geni del CYP450 sono state identificate nei mammiferi [143]. Ogni membro di questa superfamiglia ha regioni altamente conservate nella sequenza amminoacidica. Tuttavia, nelle sequenze primarie esistono anche notevoli differenze tra specie. Anche piccole differenze nella sequenza amminoacidica possono implicare ampie differenze nella specificità del substrato [77-142-144]. Delle principali isoforme coinvolte nel metabolismo dei farmaci (CYP 1A, 2A, 2B, 2C, 2D, 2E, e 3A) quelle umane sono sostanzialmente diverse da quelle che si trovano nei roditori, nei cani e nei primati non-umani [141-145]. Tali variazioni potrebbero spiegare, almeno in parte, le notevoli divergenze nella risposta ai farmaci tra modelli animali ed esseri umani. La letteratura scientifica fornisce numerosi esempi di terapie che si sono dimostrate di successo nei modelli animali ma hanno successivamente fallito nel dimostrare di essere ugualmente performanti anche negli studi clinici:
  • Circa 300 approcci farmacologici sperimentali destinati al trattamento dell’Alzheimer hanno dimostrato di essere efficaci e sicuri su modelli animali [13-146-147]. Tuttavia, ad oggi, non esiste un solo farmaco capace di fermare, rallentare, o prevenire la progressione della malattia negli esseri umani [148]. Il 99.6% dei farmaci testati con successo su animali tra il 2002 ed il 2012 ha fallito nei trials clinici sperimentali su esseri umani [149-150]. L’inadeguatezza dei modelli animali utilizzati negli studi sull’Alzheimer viene oggi riconosciuta come uno dei motivi principali alla base del mancato successo nella traduzione di valide terapie approvate per l’impiego clinico umano [13-91-116].
  • La letteratura scientifica mostra che, fino ad oggi, oltre mille composti sperimentali sono stati provati con successo su modelli animali di Sclerosi Multipla [151], eppure nessuno di essi si è infine tradotto come ‘’cura decisiva’’ per la malattia umana [152]. Infatti, i modelli animali di SM vengono sempre più riconosciuti, anche in quest’area di studio, come fuorvianti per la situazione umana di riferimento [153-154-155].
  • Le cose non vanno meglio per il trattamento della Sclerosi Laterale Amiotrofica [69-72-92-156]. Thomsen et al. riferiscono che, dopo mezzo secolo di prove ed oltre 150 differenti agenti terapeutici o strategie testate nei modelli preclinici animali di SLA, solo il Riluzolo è sembrato essere l’unico farmaco sviluppato capace di prolungare la sopravvivenza del paziente, anche se solo di circa 2-3 mesi,  ovvero alquanto miseramente [157].

‘’Gli studi clinici basati sui modelli murini di SLA hanno ampiamente fallito, il che indica la necessità dell’esplorazione di nuovi modelli.’’ [158]

(Marchetto et al. 2011)

  • Stessa frustrante situazione per il trattamento della malattia di Parkinson [159-160].
  • Circa 150 farmaci sperimentali per il trattamento della sepsi sono stati testati con positività di risultato su animali, nessuno si è tradotto in una pratica clinica terapeutica efficace per l’essere umano [161].
  • Circa 100 vaccini anti-HIV/AIDS hanno funzionato su modelli animali, tutti quanti hanno fallito nell’uomo in centinaia di trials clinici [82].
  • Di circa mille interventi neuroprotettivi dimostrati effettivi e sicuri su animali, solo uno, il tPA (attivatore tissutale del plasminogeno, che tra l’altro per via di una serie di ragioni, tra cui il serio rischio di emorragie cerebrali, viene utilizzato solo nel 5-10% dei pazienti affetti da ictus) [162], si è tradotto dagli studi animali alla pratica clinica su esseri umani [82-163]. Un unico trattamento terapeutico per l’ictus, dopo decenni di costosissime ed estenuanti ricerche, applicabile unicamente a circa il 5-10% dei pazienti colpiti, a monte di centinaia di fallimenti.
  • Circa un decennio fa, i ricercatori hanno riferito l’esistenza di 195 metodi pubblicati che hanno impedito o ritardato lo sviluppo del diabete nei modelli murini [164]. Eppure, nessuna di queste “scoperte” si è mai tradotta nella pratica clinica umana come trattamento terapeutico [106-164].
  • ‘’Last but not least’’. E’ ampiamente riconosciuto tra gli addetti ai lavori della comunità scientifica, degli enti regolatori e dell’industria farmaceutica che farmaci utili, se non salva-vita, sono stati ‘’cestinati’’ prematuramente nel processo di sviluppo a causa di (fuorvianti) dati animali che non giustificavano le successive sperimentazioni umane [165-166-167].

 ‘’La tossicità di un farmaco è una delle ragioni più comuni per cui composti promettenti falliscono. Ma i test sugli animali, l’usuale metodo di controllo di un farmaco prima che venga provato su esseri umani, possono essere fuorvianti. Circa la metà dei farmaci che funzionano negli animali può rivelarsi tossica per le persone. Ed alcuni farmaci possono in effetti funzionare bene nelle persone, anche se non riescono negli animali, il che significa che farmaci potenzialmente importanti potrebbero essere respinti.’’ [168]

(Prof. Francis Collins, attuale Direttore degli US NIH e responsabile dell’HGP, Human Genome Project)

‘’Spesso è una questione di pura fortuna se gli esperimenti su animali portano a farmaci clinicamente utili.’’ [84-169-170]

(Dr. Bernard Brodie, Farmacologo degli US NIH)

‘’I modelli animali rappresentano niente di più che uno straordinario, e nella maggior parte dei casi irrazionale, atto di fede.’’ [98]

(Horrobin 2003)

13 novembre 2017

Alfredo Lio (socio volontario dell’associazione medico-scientifica O.S.A., in collaborazione alla L.I.M.A.V.)

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